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Molti pazienti affetti da SARS-CoV-2 soffrono di sindrome da fatigue post-Covid-19.
Il termine fatigue ha diversi significati e comprende differenti stati, da quelli vissuti dalle persone nell'ambito della vita quotidiana (stanchezza “fisiologica” o “quotidiana”) a quelli legati ad una malattia (“stanchezza patologica”, come ad esempio nel caso dell’anemia).1
La fatigue può essere oggettivamente misurabile da un esame obiettivo, come ad esempio una riduzione dell'efficienza nella generazione di forza nel caso di una miopatia, oppure può essere una sensazione puramente soggettiva, ossia, stanchezza intesa come sintomo. Clinicamente, quando i pazienti lamentano una sensazione di affaticamento, possono effettivamente riferirsi a debolezza, dispnea, difficoltà di concentrazione, sonnolenza o umore basso. È importante quindi un'attenta delineazione della natura dei sintomi sia in ambito clinico che di ricerca, per differenziarla da un semplice affaticamento, dato che l'esperienza soggettiva della fatica, intesa come del dolore, viene spesso interpretata alla luce di altri processi cerebrali concomitanti, come percezioni, emozioni e cognizioni.1
Sebbene non vi siano ancora spiegazioni patofisiologiche chiare dell’associazione tra fatigue e Covid-19, studi recenti hanno sviluppato un nuovo paradigma per la sindrome da fatigue post Covid. Tale modello si basa su quelli recenti utilizzati per l’encefalomielite mialgica/ sindrome da stanchezza cronica (ME/CFS), data la somiglianza di caratteristiche tra le due patologie e gli aspetti comuni con la sindrome da fatigue cronica descritta anche a seguito di altre infezioni gravi, tra cui la SARS, la MERS e la polmonite acquisita in comunità, benché la ME/CFS possa essere attivata anche da un agente non virale.2,3
Il razionale alla base di questo paradigma è che SARS-CoV-2 sia un grave fattore di stress fisiologico, che potrebbe avere come bersaglio il nucleo ipotalamico paraventricolare (PVN), regolatore dello stress all’interno del cervello. Quando si supera un certo livello di tolleranza allo stress, il PVN ipotalamico può diventare l’epicentro per l’attivazione indotta da microglia e neuro-infiammazione associata a citochine proinfiammatorie e molecole neurotossiche, che colpiscono l’ipotalamo e il sistema limbico.2
L’ipotesi è quindi che i mediatori infiammatori, rilasciati nel sito dell’infezione da Covid-19, possano venir trasmessi come segnali di stress, tramite pathway umorali e neurali, con conseguente sovraccarico di questo centro.2
Negli individui geneticamente suscettibili, così come nei casi di ME/CFS, si verificherebbe quindi il superamento della soglia di stress intrinseca, causando una disfunzione continua al complesso circuito neurologico del PVN ipotalamico che, in questo stato di compromissione, diverrebbe ipersensibile a una vasta gamma di fattori di stress fisiologici e continui portando, come risultato, al verificarsi di episodi di affaticamento a seguito di sforzi e ricadute severe, problemi dell’umore, ipersensibilità a variazione di luce e temperatura, aumento dei livelli di cortisolo associato allo stress, disturbi del sonno e cognitivi, che protraggono uno stato di malattia continuo.2
Studi sulla scansione cerebrale con tecniche di imaging potrebbero consentire di identificare questi processi di neuro-infiammazione, aiutando così a testare il modello proposto e migliorando la conoscenza disponibile sulla patofisiologia della sindrome di fatigue da Long e post Covid-19 e sulla sua durata, a cui poi sono spesso associate altre comorbidità a lungo termine di tipo polmonare, cardiovascolare, gastrointestinale e cerebrale.2
3.762 soggetti raccolti in uno studio, di età tra i 30 e i 59 anni che presentavano problematiche post-Covid a 6 mesi dall’infezione, di cui l’80% di sesso femminile e più del 90% non ospedalizzata, riportava come sintomi più frequenti:
con l’85% dei pazienti intervistati che avevano sperimentato ricadute, indotte da sforzo fisico, mentale e stress psicologico.2,4
Il 67% della coorte valutata non era in grado di lavorare al momento dell’intervista o seguiva un orario di lavoro ridotto e, tutti assieme, i dati permettono di ipotizzare che anche casi relativamente leggeri di infezioni da SARS-CoV- 2 potrebbero scatenare sintomi.2
Dati discordanti si hanno relativamente alla durata della fatigue e dei sintomi correlati: uno studio irlandese condotto su 128 pazienti post Covid-19, guariti dalla fase acuta e di cui la metà erano stati ospedalizzati, ha evidenziato come:
Al contrario, secondo statistiche inglesi, solo il 10% dei pazienti risultati positivi al test per Covid-19, non si sentiva ancora bene oltre 3 settimane dopo l’infezione e, in percentuale minore, nei mesi successivi.4
Anche gli studi longitudinali condotti per rintracciare i sintomi di pazienti Long e post Covid-19 a più lungo termine, fino a 6 e più mesi, mostrano esiti molteplici e, sebbene il Covid-19 sia una malattia abbastanza nuova, e di certo complessa, collegamenti sempre più forti tra i sintomi di pazienti Long e post Covid-19 e altre patologie stanno emergendo in modo sempre più evidente.2
Studi recenti hanno cercato di stabilire le linee guida per l’identificazione dei pazienti con segni e sintomi di Long Covid-19, tramite un processo diagnostico standardizzato, che consideri le possibili eziologie, attuando un’accurata diagnosi differenziale.3
Secondo le linee guida proposte da un gruppo di ricerca spagnolo, elaborate sulla base delle raccomandazioni delle linee guida NICE per la valutazione delle persone affette da Long COVID-19, i pazienti dovrebbero essere gestiti attraverso visite di assistenza primaria, organizzate cronologicamente, in base al tempo dalla diagnosi dell’infezione.3
Per quanto riguarda, nello specifico, la fatigue, l’approccio diagnostico proposto per i soggetti che mostrano sintomi persistenti a distanza di più di 4 settimane dopo l’infezione da SARS CoV-2, dovrebbe includere:
malattie infettive precedenti all’infezione da Covid-19 che possano essere associate a fatigue cronica,
malattie organo-specifiche che risultino da infezione da Covid-19, che abbiano reso necessaria l’ammissione all’ospedale e che possano causare fatigue e altri sintomi concomitanti.
Una sostanziale riduzione o compromissione della capacità di impegnarsi ai livelli pre-malattia in un’attività professionale, educativo, sociale o personale, accompagnata dalla fatigue, che spesso è profonda, di nuova insorgenza e non si allevia con il riposo;
Malessere post-sforzo;
e inoltre, almeno una manifestazione tra compromissione cognitiva e intolleranza ortostatica.4,5,6
Se tali criteri sono soddisfatti, viene effettuata la diagnosi di sindrome da stanchezza cronica associata a COVID-19 (che sarà confermata quando i criteri saranno successivamente soddisfatti a sei mesi) e viene applicato il protocollo di rinvio alla corrispondente unità multidisciplinare. In caso di non conformità, si raccomanda la valutazione della perdita delle capacità fisiche, correlata alla pandemia e a fattori psicologici, così come l’applicazione di linee guida e programmi di attività fisica per la riabilitazione.3
Infine, relativamente alle evidenze correnti, la gestione dei sintomi del Long Covid, tra cui la fatigue appunto, richiede un follow up longitudinale e olistico di assistenza primaria, servizi di riabilitazione multidisciplinari, nonché l’empowerment dei gruppi di pazienti.3
Secondo gli autori di numerosi studi, il Long Covid e le sintomatologie ad esso correlate dovrebbero essere gestite contemporaneamente alle comorbidità preesistenti, e la comunità scientifica ha più volte sottolineato come, al fine di implementare un’assistenza comprensiva e multidisciplinare, sia necessario fornire risorse umane aggiuntive ai centri di assistenza primaria, nonché linee guida per la gestione dei pazienti, soggette a continui aggiornamenti, di pari passo con il proseguire delle conoscenze di questa “nuova” patologia.3
PP-UNP-ITA-1711
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