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Long Covid negli adulti 

In base alla definizione del British National Institute for Health and Care Excellence (NICE), siamo in presenza di Long Covid o Post-COVID-Syndrome (PCS) quando i segni e sintomi che si sviluppano durante o dopo un’infezione acuta da Covid-19 perdurano per oltre 12 settimane e non possono essere spiegati da diagnosi alternative1,2,3. Il National Institutes of Health (NIH) statunitense utilizza, invece, la definizione dei CDC, denominando Long Covid le sequele che si estendono oltre le 4 settimane dall'infezione iniziale3

Il termine Long Covid include quindi, secondo le ultime linee guida NICE, il Covid-19 sintomatico persistente nelle 4-12 settimane dopo l'infezione e la sindrome post-Covid-19, caratterizzata dal persistere dei sintomi oltre le 12 settimane dopo l'infezione.2  

Considerando che: 

  1. i tempi di recupero dall’infezione possono variare molto da un paziente all’altro 
  2. forme asintomatiche dell’infezione, anche durante la fase acuta, sono state affiancate da forme sintomatiche moderate, con brevi tempi di recupero 
  3. nel corso della pandemia, si sono verificati sia casi di ospedalizzazione, anche in terapia intensiva, con tempi di ripresa prolungati fino a 12 settimane che manifestazioni sintomatiche prolungate oltre i 3 mesi 

si comprende la difficoltà nel formulare una definizione onnicomprensiva e, al tempo stesso, condivisa. 
 

Numerosi sono gli studi che hanno valutato l’impatto a lungo termine dei sintomi riportati a seguito dell'infezione da SARS-CoV-2, l’incidenza, i fattori di rischio, il trattamento e la gestione del Long Covid3. Dall’insieme di tutti questi si evince che tale virus può provocare effetti a lungo termine e ripercussioni sulla salute e che il Long Covid può colpire sia persone che hanno sviluppato malattia acuta lieve che persone che hanno sofferto invece forme più gravi.  

Qualsiasi paziente affetto da Covid-19, quindi, può sviluppare Long Covid, indipendentemente dalla gravità dell'infezione acuta e dal tipo di trattamento ricevuto, sia nei reparti ospedalieri che nelle unità di terapia intensiva, o ancora i non ricoverati, i soggetti trattati con solo ossigeno, con pressione positiva continua delle vie aeree o con ventilazione invasiva.  

Incidenza del Long Covid nella popolazione adulta 

Definito anche, a livello mondiale, con i sinonimi di Post Acute COVID-19 Syndrome (PACS), Chronic COVID-19 Syndrome (CCS), and Long Haul COVID-19, il Long Covid appare nelle pubblicazioni scientifiche di oltre 16 paesi, ma la durata del periodo di follow-up, la tipologia di popolazione valutata, l’accuratezza delle auto-segnalazioni e i sintomi esaminati sono fattori variabili che possono provocare discordanze tra i risultati dei vari studi.
 

Una recente revisione di 4.500 articoli con dati provenienti da 50 studi su 1,7 milioni di soggetti in tutto il mondo suggerisce una prevalenza globale della condizione post COVID nel 43% della popolazione, ossia, sulla base dei dati dell'OMS di 470 milioni di infezioni da Covid-19 a livello mondiale, questa stima indica che circa 200 milioni di individui attualmente potrebbero sperimentare, o hanno già sperimentato, conseguenze a lungo termine relative al COVID4 (con dati eterogenei dal 2,3% al 54% tra gli ospedalizzati e dal 7,5% al ​​41% per i non ospedalizzati).5 
 

Nel dettaglio: 

  • Gli adulti di sesso femminile hanno maggiore prevalenza e rischio di una condizione di Long e post COVID-19 rispetto ai maschi adulti (49% rispetto al 37%). 

  • Stime di prevalenza regionale in Asia, Europa e USA sono circa il 51%, il 44% e il 31% di tutti i casi riportati, rispettivamente. 

  • Stime di prevalenza a 30, 60, 90 e 120 giorni sono rispettivamente il 37%, 25%, 32% e 49%.4 

Le stime a 90 e 120 giorni probabilmente rappresentano al meglio l'attuale definizione dell'OMS, secondo cui:
 

“La condizione post-COVID-19 si verifica in individui con una storia di infezione da SARS-CoV-2 probabile o confermata, di solito a 3 mesi dall'inizio del COVID-19 con sintomi che durano per almeno 2 mesi e non possono essere spiegati da una diagnosi alternativa. I sintomi più comuni includono fatigue, mancanza di respiro e disfunzione cognitiva e generalmente hanno un impatto sul funzionamento quotidiano. I sintomi potrebbero essere di nuova insorgenza dopo il recupero iniziale da un episodio acuto di COVID-19 o persistere dalla malattia iniziale e potrebbero anche fluttuare o avere ricadute nel tempo”.4, 6
 

Queste durate, benché non assolute, evidenziano in maniera esaustiva l’entità del problema, attuale e futuro, poiché un elevato numero di individui svilupperà sintomi da Long Covid e richiederà supporto e cure a lungo termine, con un impatto significativo su tutto l’ecosistema sanitario.  

Conseguenze a lungo termine dell’infezione da SARS – CoV-2 

Lo stato di infiammazione cronica, causato dal virus, è in grado di provocare una deregolazione del sistema immunitario che persiste nel tempo, con conseguenti e ricorrenti manifestazioni di notevole entità. I dati relativi ad uno studio condotto su più di 48 mila pazienti7, a distanza di sei mesi dalla prima ondata della pandemia di Covid-19 nella regione Lombardia, mostrano come una persona su cinque affetta da Covid-19 sia tornata in ospedale nei sei mesi successivi alla negativizzazione, o comunque abbia avuto necessità di farmaci per diverse patologie (metaboliche, ematologiche, cardiovascolari, neuropsichiatriche e respiratorie) ad indicare e confermare che la condizione post-COVID può coinvolgere, anche contemporaneamente, più organi e sistemi corporei.  

Confrontate le richieste al SSN tra il periodo che ha preceduto il Covid (giugno-dicembre 2019) e quello post prima ondata (giugno-dicembre 2020), è stato possibile constatare che: 

  • Il 54% dei soggetti affetti da Covid era stato ricoverato in reparti ordinari. 
  • Il 3% era ricorso alla terapia intensiva.  
  • Il 43% dei pazienti era stato curato a domicilio (il 64% era di sesso femminile). 

A distanza di sei mesi dalla guarigione: 

  • la percentuale più alta di pazienti deceduti (2%) corrispondeva al gruppo di quelli ricoverati nei reparti non intensivi  

  • la percentuale più alta di accessi al pronto soccorso (13,8%) era relativa a chi era stato curato a casa 

  • la percentuale più alta dei pazienti che necessitavano di un ulteriore ricovero (16,3%) apparteneva al gruppo dei soggetti ricoverati in terapia intensiva. 

Questi risultati sono stati confermati da revisioni sistematiche recenti8 e dai dati del sistema sanitario inglese relativi a 47mila pazienti ricoverati per Covid-19 che hanno subito un secondo ricovero (un terzo dei pazienti) o decesso (uno su dieci), a distanza di cinque mesi dalle dimissioni.9  

Dagli studi è anche emerso che, nei mesi successivi alla guarigione, gli esami più richiesti sono stati quelli legati a problemi cardio-respiratori (spirometria, TAC ed elettrocardiogramma), seguiti da analisi per disturbi renali e neurologici, oltre ad un aumento del consumo dei farmaci, sia per chi era stato ricoverato in terapia intensiva che per chi era stato assistito in reparti ordinari7.
 

Tra le analisi che hanno esaminato le conseguenze a lungo termine, un recente lavoro italiano10 ha descritto l'evoluzione clinica del Covid-19 a un anno dalla dimissione. Di 767 pazienti di età maggiore o uguale a 18 anni, 238 hanno acconsentito a partecipare a un follow-up clinico a 4 mesi e 200 a una valutazione clinica a 12 mesi, che includeva:  

  • test di funzionalità polmonare con capacità polmonare di diffusione per il monossido di carbonio (DLCO); 
  • valutazione dei sintomi di stress post-traumatico (PTS) mediante Impact of Event Scale (IES); 
  • valutazione della funzione motoria (mediante Short Physical Performance Battery e test di cammino di 2 minuti); 
  • tomografia computerizzata (TC) del torace. 
Il tempo mediano di follow-up è stato di 12 mesi e si è riscontrato che: 
  • Il 39,5% dei pazienti (79/200) riportava almeno un sintomo persistente dopo l’infezione. 
  • Il 49,0% (96) aveva una DLCO < 80.  
  • Alcuni sintomi e i risultati del loro monitoraggio durante il periodo di follow-up a 4 e 12 mesi sono riportati nella Tabella seguente:
  • Il 10,2% (20) mostrava una grave compromissione della DLCO (< 60%), correlata all'entità delle anomalie della scansione TC. 
  • Nel 25,8% dei soggetti è stato osservato un certo grado di compromissione motoria.  
  • Il 18,5% (37) presentava sintomi PTS da moderati a gravi.
Alcuni sintomi e i risultati del loro monitoraggio durante il periodo di follow-up a 4 e 12 mesi sono riportati nella Tabella seguente:

Example

Questo studio contribuisce anche a profilare i pazienti a più alto rischio di sequele di lunga durata, evidenziando come, in linea con la letteratura attuale, al genere maschile è associata una prognosi peggiore durante la malattia acuta, mentre le donne sono a più alto rischio di sintomi persistenti e coinvolgimento psicologico a lungo termine, portando a postulare un potenziale ruolo di fattori ormonali nella patogenesi di questa condizione11,12.

E ancora, nelle donne si registra una riduzione della DLCO, dispnea persistente e affaticamento, ma una maggiore sopravvivenza al Covid-19 grave, giustificando in un certo senso la persistenza di sequele cliniche, sebbene non in modo del tutto soddisfacente. Infatti, nel contesto di un modello multivariato, i parametri che valutano la gravità della malattia acuta non sono correlati alla riduzione della DLCO, mentre alcune comorbilità specifiche, come la BPCO, la malattia renale cronica e l’ipertensione arteriosa - fattori prognostici negativi ben descritti durante la fase acuta -  sono associate a compromissione funzionale persistente10
Gli autori dello studio concludono che i sintomi del Covid-19 possono persistere fino a 12 mesi dopo la dimissione ospedaliera, come conseguenza sia di stress mentale che del danno d'organo. 

L'alterazione della funzione respiratoria, secondaria a danni strutturali polmonari radiologicamente provati, e sequele di salute mentale persistono nel tempo in una percentuale significativa di pazienti mentre, nel corso del follow up, si è assistito in tutti i soggetti al recupero della funzione motoria continua10.
 

Uno studio italiano13, condotto su 479 pazienti vaccinati e non vaccinati (52.6% di sesso femminile, età media 53 anni), intervistati 13.5 mesi dopo infezione acuta da SARS-Cov-2, ha evidenziato che: 

  • il Long Covid è stato osservato nel 47.2% dei casi (226/479)  
  • i soggetti non vaccinati hanno riportato tassi di sintomi più elevati a 6 mesi rispetto a coloro che erano stati vaccinati 
  • non sono state rilevate differenze significative nel peggioramento dei sintomi post Covid tra i pazienti vaccinati (132) e quelli non vaccinati (347) (22.7% vs 15.8%). 

Se da un lato, la vaccinazione anti SARS-CoV-2 non è associata all’insorgenza di sintomi post-Covid-19 a un anno dall’infezione acuta, dall’altro, la persistenza di titoli sierologici elevati indotti dalla risposta all’infezione naturale potrebbe giocare un ruolo nello sviluppo del Long Covid.

Sintomi e manifestazioni cliniche 

Come il Covid-19 acuto, il Long Covid può coinvolgere più organi, andando a interessare il sistema cardiovascolare, neurologico, gastrointestinale e muscoloscheletrico, oltre a quello respiratorio. 
Il recettore ACE2 è infatti presente sulla superficie di quasi tutte le cellule, anche se con livelli di espressione diversi, e per questo il SARS-CoV-2 può penetrare in più organi, causando successivamente molti danni associati a numerosi sintomi persistenti, di cui i principali sono mostrati nella figura seguente3

I sintomi del Long Covid includono:  

  • fatigue;  

  • dispnea;  

  • anomalie cardiache; 

  • deterioramento cognitivo; 

  • disturbi gastrointestinali; 

  • disturbi del sonno; 

  • sintomi di disturbo da stress post-traumatico; 

  • ansia;
  • depressione; 

  • dolori muscolari; 

  • problemi di concentrazione e mal di testa. 

Le tipologie di sintomi caratteristici del Long Covid sono quindi molteplici14, di cui quello più comune è la fatigue, uno stato costante di stanchezza che influisce negativamente su energia, motivazione e concentrazione3. A seguito dell'epidemia di SARS-CoV-2, circa il 60% dei pazienti ha riportato affaticamento 12 mesi dopo il recupero dalla malattia acuta e, più nel dettaglio, la prevalenza dell’affaticamento a cinque settimane è stata stimata nell'11,9% dei soggetti, mentre da uno studio trasversale è emerso che il 92,9% e il 93,9% dei pazienti Covid-19, ospedalizzati e non, rispettivamente, ha riportato affaticamento continuo a 79 giorni dall'insorgenza della malattia15 e, in generale, a 79 ± 17 giorni solo lo 0.7% risultava privo di sintomi di qualunque tipo.16 

 

Una fra le prime dieci complicanze, con una prevalenza del 6%, è la diarrea, seguita da nausea, vomito, dolore addominale e perdita di appetito17

Complicanze altrettanto comuni sono i sintomi muscoloscheletrici, sia nella fase della malattia che nella fase postacuta della malattia17,18 e, in particolare, l’atrofia muscolare catabolica, che risulta dall’infiammazione sistemica, dall’allettamento prolungato e dalla malnutrizione.19  

Dei pazienti sopravvissuti, quelli che avevano avuto la malattia acuta più grave presentavano maggiore debolezza muscolare e problemi di mobilità12
A un mese dalle dimissioni si sono riscontrate anche diverse complicanze psichiatriche associate all’infezione da SARS-CoV-2, quali: 

  • PTSD (28%) 
  • depressione (31%) 

  • ansia (42%) 

  • insonnia (40%).20 

E ansia e depressione perduravano nel 23% dei pazienti anche a 60 giorni dall’ospedalizzazione. 

 

A fianco a queste manifestazioni sintomatologiche più frequenti, esiste una gamma molto più ampia di possibili sintomi correlati al Long Covid: tra agosto e novembre del 2021 gli autori di due revisioni21, 22, hanno aggregato i sintomi presenti in letteratura, considerando studi originali pertinenti con indagine a 2-16 settimane dopo l'infezione, rilevando in totale circa 55-100 sintomi, con grande eterogeneità in termini di prevalenza e impostazioni metodologiche.   

 

Di questi, i principali per incidenza sono risultati i sintomi:  

  • cardiovascolari (palpitazioni (11%), battito cardiaco elevato (11%), miocarditi (1%), aritmia (0.4%))  
  • polmonari (anormalità all’imaging toracico (34%), funzione polmonare ridotta (10%), fibrosi polmonare (5%)) 
  • respiratori (dispnea (24%), polipnea (21%) e tosse (19%)) 
  • dolore (mal di testa (44%), dolori articolari (19%) e al petto (16%)) 
  • psicologici, cognitivi (fatigue (58%), e perdita di attenzione (27%), ansia (13%) e depressione (12%), disturbi del sonno (11%))  
  • chemocettivi (ageusia (23%) e anosmia (21%))
  • disturbi dermatologici (perdita di capelli (25%), rash e segni cutanei (12%)).22 

La persistenza di molti questi sintomi sono stati poi valutati a distanza di un anno di follow-up, in uno studio inglese23 condotto su 18 revisioni che riguardavano 8591 sopravvissuti al COVID-19, evidenziando come:   

  • fatigue/debolezza avevano una persistenza superiore a 12 mesi nel 28% dei casi  
  • dispnea/affanno del 18%  
  • tosse (5%), dolore toracico (5%), mal di gola/difficoltà a deglutire (2%) e produzione di espettorato (2%) 
  • anosmia e ageusia (del 6 e 4%, rispettivamente), 
  • rash cutaneo (3%) e perdita di capelli/alopecia (7%) 

mentre, per quanto riguardava i disturbi psicologici e cognitivi, ad un anno veniva segnalata la persistenza di:   

  • depressione (23%), ansia (22%), perdita di memoria e attenzione (19%) e difficoltà del sonno (12%).

Le conclusioni degli autori dei vari studi, a riguardo, sono che la prevalenza dei sintomi riportati varia in modo significativo e non dipendente da approcci di raccolta dati, metodologici o dal disegno di studio, e che potrebbe dunque essere correlata a fattori sconosciuti, specifici della coorte.21 

Inoltre, viene evidenziato come i sintomi maggiormente persistenti ad un anno fossero più evidenti nelle donne e nei soggetti infezione acuta da COVID-19 più severa23, ma che è necessario standardizzare le misure biologiche (marcatori ematici, genetici, di risposta infiammatoria, immunitaria e metabolica) per poter confrontare studi differenti e poter ottenere un quadro esaustivo.22 

Numerosi ricercatori hanno sottolineato anche la necessità di sviluppare nel più breve tempo possibile un Core Outcome Set per la condizione Long e post-COVID-19, sia nella popolazione adulta che in quella pediatrica, finalizzato a migliorare la qualità dei dati, l'armonizzazione e la comparabilità tra diverse località geografiche, coinvolgendo al livello globale tutti i partner rilevanti, inclusi, a titolo esemplificativo, operatori sanitari, ricercatori, metodologi, pazienti e operatori sanitari.24 

Potenziali fattori di rischio per lo sviluppo di Long Covid negli adulti 

Dall’analisi della letteratura si evince come sia difficile identificare le persone a più alto rischio di sviluppare sintomi persistenti correlati al Covid-19. Sicuramente, il principale fattore di rischio è la gravità dell’infezione acuta25, così come a quest’ultima potrebbe essere associato anche lo sviluppo dei sintomi più severi.  

Inoltre: 

  • età avanzata 
  • sesso maschile 
  • peso corporeo eccessivo 
  • presenza di più di 5 sintomi durante la prima settimana della fase acuta 

sono forti indicatori prognostici della persistenza a lungo termine dei sintomi, sebbene l’Office of National Statistics britannico15 abbia riportato che: 

  • la prevalenza di qualsiasi sintomo da Long Covid è più alta nelle donne rispetto agli uomini (23.6% versus 20.7%);  

  • la fascia di età maggiormente affetta è quella tra i 35 e i 49 anni (26.8%), seguita dalla fascia 50-69 anni (26.1%) e dal gruppo dei ≥70 anni (18%). 

Secondo dati italiani, la presenza di fatigue, al momento della fase acuta di Covid-19, rappresenta un importante fattore di rischio per la persistenza di questo e più sintomi, successivamente all’infezione.25 

 

Su un campione di 274 pazienti non ospedalizzati, con sintomi acuti nell’arco di tempo 14-21 giorni dopo il risultato positivo del test, i fattori di rischio per un mancato ritorno allo stato di salute precedente includevano26:  

  • l’età (P=0.01), con il gruppo dei pazienti ≥50 anni che presentava l’OR (odds ratio) maggiore; 
  • il numero delle condizioni mediche preesistenti (P=0.003), con un maggiore numero di condizioni associate a un OR maggiore.  

Tra le condizioni mediche preesistenti, corrispondenti ai maggiori fattori di rischio per un mancato ritorno allo stato di salute originario, si segnalavano: 

  • ipertensione (OR=1.3, P=0.018)  
  • obesità (OR=2.31, P=0.002) 
  • disturbi psichiatrici (OR=2.32, P=0.007)  
  • condizione di immunosoppressione (OR=2.33, P=0.047).26 

Ndr: OR (odd ratio) esprime l’associazione tra l’esposizione a certi fattori di rischio e l’insorgenza di una malattia  

Implicazioni a livello sociale del Long Covid e prospettive future 

Come più volte evidenziato, data la recente comparsa del Long Covid e lo stato prematuro, sebbene cospicuo, della ricerca in corso, ciò che si riesce a tratteggiare è un quadro, inevitabilmente frammentario, eterogeneo e quindi in parte inconcludente, delle implicazioni per la salute pubblica da cui emerge che: 

  • Gran parte della ricerca finora effettuata è stata focalizzata, con particolare attenzione, sui partecipanti ospedalizzati, ambulatoriali o domiciliari opportunamente campionati, piuttosto che ad un numero di soggetti più ampio, campionati casualmente. 
  • La prevalenza di alcuni sintomi è raramente messa in relazione alla loro presenza nelle persone senza infezione da SARS-CoV-2, prima o durante la pandemia, e la maggior parte degli studi non riesce a distinguere con precisione tra i sintomi correlati a SARS-CoV-2 e quelli legati ad altre condizioni preesistenti. Ciò è particolarmente importante per esiti gravi e potenzialmente pericolosi per la vita che coinvolgono danni agli organi vitali, come il cuore o i polmoni. 
  • La maggior parte degli studi primari che riportano il coinvolgimento di organi non sono ancora in grado di associazioni univoche.  
  • Alcuni sottogruppi della popolazione rimangono sottorappresentati, inclusi gli anziani, le persone con disabilità e un'ampia percentuale di pazienti asintomatici SARS-COV-2.  

Mentre stanno ancora emergendo prove sui fattori di rischio, solo poche revisioni hanno discusso i fattori protettivi, suggerendo ad esempio che una buona attività fisica potrebbe ridurre il rischio di sviluppare Long Covid. 27 

La ricerca sui comportamenti di mitigazione del rischio, nonché sui meccanismi attraverso i quali diverse opzioni di trattamento possono potenzialmente influenzare la gravità dei sintomi sarà la chiave per i futuri approcci di prevenzione. Allo stesso modo, man mano che i vaccini si diffonderanno ancor più a livello globale, la ricerca dovrà spostarsi verso la comprensione degli effetti, se presenti, della vaccinazione sui sintomi del Long Covid e se esiste un effetto protettivo a lungo termine per coloro che sono vaccinati e contraggono nuovamente il SARS-CoV-2.
 

Le prove fino ad ora considerate dimostrano che il Long COVID ha conseguenze debilitanti sulla qualità della vita, sociale e familiare, nonché a livello occupazionale. Molte persone colpite da Long Covid si sono trovate e si trovano, ad affrontare, di fatto, periodi di assenza dal lavoro prolungati o orari ridotti che hanno aumentato il rischio di disoccupazione e difficoltà finanziarie nonché sono associati ad un aggravamento del peso psicologico.
 

Queste problematiche si andranno ad aggiungere a quelle derivanti dalle situazioni economiche globali, già messe in difficoltà da 2 anni di pandemia, e la previsione degli effetti a lungo termine di tutte le concause non è di facile previsione5

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Long Covid
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